Editoriale di settembre. Pellegrini (direttore di 4ruote)
Numerosi lettori lamentano che lo spazio dedicato da Quattroruote alle vetture elettriche dovrebbe essere proporzionale alle immatricolazioni: siccome le Bev non le compra nessuno, dicono, non ne dovremmo parlare. A tale obiezione rispondo che i contenuti del giornale non rispecchiano criteri da manuale Cencelli. Se così fosse, tradiremmo la natura ecumenica che è parte integrante del nostro Dna, ci sarebbero marchi destinati a non apparire mai sulle nostre pagine, falsando la narrazione oggettiva a nostro avviso indispensabile per la credibilità di una testata, e, soprattutto, non racconteremmo all'opinione pubblica il cambiamento più radicale vissuto dall'automobile da quando Henry Ford ha reinventato la linea di produzione. A molti il nostro modo di fare informazione vecchio stile non piace più: in un mondo dei media che tende ad assecondare la condivisione di istanze identitarie per coagulare attorno a un pensiero un'audience in cerca di conferme, il nostro rigore oggettivo suona desueto. E infatti da Quattroruote non pochi pretendono una presa di posizione ideologica contro l'elettrico, senza rendersi conto che così facendo cadremmo in quello stesso spirito dogmatico che ha generato una transizione agghiacciante nella sua superficialità. Sin da tempi non sospetti siamo stati fra i pochi a sostenere che – alla luce delle premesse, delle modalità e della miopia strategica dell'Europa – la rivoluzione sarebbe stata irrealizzabile, come ora appare evidente. Ma censurare il prodotto che di tali decisioni va ritenuta la conseguenza è una solenne stupidaggine.
Chiarito come funzionano le cose qui da noi, comprendo lo scontento. Mai nella storia si è verificato un tale scollamento fra gl'indirizzi dell'industria e le aspettative dei consumatori. Nonostante la spinta mediatica, nonostante lo zelo dei volenterosi servitori della causa green o supposta tale (rimasti orfani di quella finanza che li ha usati strumentalmente e che ora si tiene a debita distanza dagl'investimenti Esg), nonostante l'enorme quantità di soldi spesi in R&D, l'elettrico rimane un mezzo fallimento. Considerando le aspettative e l'offerta ormai pletorica di modelli, il 12,5% di share europeo è un misero risultato che riassume lo stallo del segmento, dopo la prima fiammata di flotte ed early adopter. In Italia, poi, siamo fermi al nulla cosmico. Le immatricolazioni dei primi sette mesi – compreso il click day del 3 giugno, quando gl'incentivi sono stati bruciati in poche ore, perché in realtà sono stati portati "all'incasso" i contratti raccolti nei sei mesi precedenti (e soltanto nel 40% dei casi alla vendita è corrisposta una rottamazione) – testimoniano di un fallimento di cui non ho memoria: tolte le Tesla, che da sole fanno il 26% del segmento (ma in Europa le vendite sono scese del 9%), gli altri modelli si vendono in dosi omeopatiche tenute al livello di decenza dalle autoimmatricolazioni (nove soli modelli hanno superato le mille unità: ripeto, in sette mesi). Inutile addentrarci in minuziose disamine sui motivi di tale rifiuto (prezzi alti, autonomia ritenuta insufficiente, dubbi sui valori residui, timori di obsolescenza tecnologica, un fortissimo rifiuto culturale connaturato al vissuto emotivo che l'auto scatena in noi italiani, un'esperienza di ricarica risibile nella sua frammentarietà, costi d'esercizio sempre meno competitivi): la verità sta nel combinato disposto di tutte queste perplessità – alcune giustificate, altre no, alcune essenziali, altre meno –. Il risultato è che l'elettrico è percepito dal comune sentire come una soluzione che senza offrire palesi vantaggi collettivi aggiunge complessità a esistenze già complesse. Nel dubbio, ci si tiene la macchina vecchia o la si sostituisce con una meno vecchia: in Italia, a luglio, per ogni 100 autovetture nuove ne sono state vendute 215 usate...
Gli ottimisti dicono che l'automotive viva il fisiologico imbarazzo di una crescita guidata da logiche speculative e che l'elettrico riprenderà la sua corsa (se non altro per mancanza di alternative). È probabile che sarà così. Certo è che per l'industria il futuro è incerto. Dopo le vacche grasse degli ultimi anni, quando si sono vendute meno macchine a prezzi più alti, le Case iniziano a vedere una contrazione degli utili. E gli investitori, finora alquanto soddisfatti dagli scintillanti bilanci, iniziano a chiedere conto degli evidenti errori tattici, ché le previsioni di penetrazione europea dell'elettrico sono state sballate di centinaia di milioni di euro. La prima reazione dei board, oltre a opportunamente allungare il ciclo vita dei modelli termici (stando però attenti a non venderne troppi, sennò arrivano le multe sugli sforamenti della CO2), è di tagliare i costi. Le ultime stime indicano che, entro la fine degli anni 20, almeno 130 mila lavoratori dell'auto perderanno il posto di lavoro, molti dei quali nella componentistica. Pure Elon Musk, per ora il preclaro vincitore della gara globale, ha annunciato 20 mila tagli. Basterà? Non è detto. Fra non molto – complice l'aggressività dei cinesi sostenuti dal proprio governo – in Europa ripartirà la guerra dei prezzi, con inevitabile compressione dei ricavi (e indubbi vantaggi per gli automobilisti). In tutto questo, il mercato che negli ultimi anni ha rappresentato l'Eldorado dei costruttori – ovvero la Cina stessa – non offre più gli sbocchi di prima: la quota dei costruttori stranieri è passata in appena quattro anni dal 62 al 44% e si affacciano all'orizzonte le tasse sull'import quale ritorsione alle iniziative di Bruxelles (a proposito, ora anche il Canada ha deciso di alzare dazi contro Pechino). A questo punto, bisognerà vedere chi ci arriverà, al 2035...
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