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 Oggetto del messaggio: Storia della Lamborghini
MessaggioInviato: mar nov 28, 2006 5:13 pm 
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Storia della Lamborghini Automobili

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Il brano è a firma Stefano Pasini, ed è estratto dal libro “The Collection”; l’immagine che abbiamo scelto ritrae Ferruccio Lamborghini durante la presentazione della futuristica Lamborghini 350 GTV di Franco Scaglione (1963). In coda al testo, l’elenco delle automobili Lamboghini prodotte, dalla GTV alla Diablo.

Lamborghini
The Collection

Per capire le Lamborghini bisogna capire la terra da cui nascono. Bisogna pensare a un albero e vederne le radici: che affondano, in questo caso, nella terra che più di qualsiasi altra al mondo ama visceralmente i motori di grande classe e grinta. Un pezzo di Pianura Padana che ha la forma di un ideale ‘triangolo d’oro’, con gli apici a Sant’Agata, Modena e Maranello, dove nascono le più belle automobili del mondo. È un fatto di sangue, di esperienza, di sensibilità o forse di pura e semplice passione. Non è un caso che qui siano state operate delle rivoluzioni stilistiche e formali che altrove, anche all’interno di aziende enormi, non sono state mai nemmeno immaginate.

Tutto nasce dal sangue caldo di questa gente, da questa terra grassa e fertile, dalle lunghe statali che tagliano a metà i campi coltivati; nel silenzio delle calde giornate d’estate, questi motori squarciano l’aria della Bassa come sirene, e tutti si voltano a guardare che cosa sta passando. Sono queste strade, queste lunghe, diritte statali lanciate come frecce attraverso le piane emiliane che hanno disegnato il DNA di questi formidabili motori: sembrano fatte apposta perché si schiacci a fondo il pedale dell’acceleratore, per godersi il suono dei 12 cilindri più belli e vocali del mondo: quelli di Sant’Agata Bolognese.
Il museo della Lamborghini è un’espressione naturale di questo amore. Voluto dai nuovi proprietari della gloriosa marca, i tedeschi del Gruppo Audi, è stato eretto in pochi mesi, con un piano architettonico ardito ma rispettoso dell’edificio in cui si inseriva, lo storico primo blocco da cui è iniziata la grande avventura della piccola e audace Casa automobilistica.
L’itinerario, che si sviluppa sui due piani di questo museo, racconta tutta la complessa, a volte intricata, straordinaria storia della Lamborghini. I modelli principali ci sono tutti, bene allineati, in perfette condizioni; soprattutto, è un museo moderno e molto ricco. Considerando il numero di modelli prodotti a Sant’Agata e il numero di vetture contenute nel museo, ci si rende conto che questo è realmente uno dei musei monomarca più rappresentativi e completi del mondo. Infatti tutte le automobili che hanno fatto grande la Lamborghini sono presenti, stabilmente o a rotazione, ma ci sono anche tante altre cose importanti o secondarie e poco note. Tutto ciò che ha un significato profondo per l’appassionato del ‘mondo Lamborghini’ trova qui la giusta rappresentazione; e un riflesso importante della passione che ha animato chi ha allestito il museo è la quantità di pannelli illustrativi, fotografie, motori staccati, modelli in scala ridotta e addirittura attrezzature d’officina d’epoca, che testimoniano direttamente o indirettamente il lungo viaggio compiuto dalla Lamborghini in questi quarant’anni difficili e gloriosi.

Ufficialmente, la storia della ‘Lamborghini Automobili’ inizia nel 1963. Bisogna però pensare alle radici lontane dell’evento e queste radici sono quelle di Ferruccio Lamborghini, classe 1916, nato sotto il segno del Toro, abile, impetuoso, volitivo, il vero protagonista della nascita dell’azienda e delle fasi iniziali della sua straordinaria storia.
Quando decise di impegnarsi nella costruzione di una fabbrica di automobili sportive di lusso, Ferruccio era un uomo molto ricco: già nel primissimo dopoguerra aveva fondato la sua fabbrica di trattori, che aveva lanciato con energia e determinazione creando un vero punto di riferimento nel settore. Poi erano venute altre attività, che lo avevano portato a essere ricco al momento giusto, prima di raggiungere la soglia dei cinquant’anni. All’inizio degli anni Sessanta, Lamborghini era quindi un uomo di successo, forte e dalle idee chiare; ma quando disse che avrebbe fabbricato un’automobile supersportiva con cui fare concorrenza alla Ferrari, molti pensarono che fosse impazzito. Costruire un’auto del genere era vista come una inspiegabile stravaganza, un pericoloso tuffo nel buio, qualcosa che avrebbe mangiato denaro senza restituire alcun profitto.
In realtà, Lamborghini aveva già fatto i suoi conti, e, come sempre, li aveva fatti molto bene. Aveva smontato le sue automobili di prestigio, quelle che aveva acquistato per suo uso personale e aveva scoperto che alcuni dei pezzi di ricambio di queste auto erano esattamente quelli che lui utilizzava nei suoi trattori, ma una volta montati su quelle auto costavano il triplo: il ricarico dei fabbricanti era evidentemente enorme. Se l’uomo Ferruccio poteva essere puntiglioso al punto di litigare con Ferrari, l’industriale Lamborghini pensava già a enormi margini di guadagno, a ciò che si poteva realizzare con questa impresa, al di là del puro e semplice prestigio.

Si mise a lavorare al progetto alla fine del 1962 e già nel maggio del 1963 costituiva la società ‘Automobili Ferruccio Lamborghini’, acquistando un grande terreno a Sant’Agata Bolognese, a circa 25 chilometri dal capoluogo emiliano, per costruire ex novo una grande, modernissima fabbrica. L’esperienza che aveva fatto con le sue precedenti aziende lo mise nella condizione di realizzare l’impianto migliore per il suo scopo: una struttura molto razionale, senza pari all’epoca in questo settore. Il grande capannone centrale, luminosissimo, era strettamente attaccato alla palazzina degli uffici, in maniera che i dirigenti avessero costantemente sotto controllo la situazione della produzione. Questo era particolarmente gradito proprio a Lamborghini, che non si poneva troppi scrupoli a lavorare personalmente sulle automobili quando gli sembrava che qualcosa non fosse fatto come avrebbe voluto.
Il primo modello nacque con tutta la fretta del caso, dal momento che in realtà solo pochi mesi separavano la decisione di costruire la fabbrica e la data fissata per la sua presentazione ufficiale. L’appuntamento scelto era quello, tradizionale all’epoca, del Salone dell’automobile di Torino, in programma all’inizio del novembre 1963. Avendo le idee molto chiare, Lamborghini poté evitare di perdere tempo nel cercare gli uomini giusti: il motore, che doveva essere il più bel 12 cilindri a V prodotto in zona, e quindi nel mondo, lo affidò subito a Giotto Bizzarrini, che aveva firmato alcuni degli ultimi motori della Ferrari, mentre per il resto della vettura e per l’avviamento della produzione assunse due giovani ingegneri molto promettenti, Giampaolo Dallara e Giampaolo Stanzani. All’epoca avevano cinquant’anni in due, ma erano bravi, appassionati e con un feeling istintivo per le automobili di razza. Ne avevano bisogno, perché il loro principale era un uomo dalla schiettezza al limite della brutalità, che sin dai primi momenti aveva messo in chiaro quello che si aspettava dalla nuova automobile. In una dichiarazione rilasciata nel 1963 al giornalista italiano Athos Evangelisti, aveva infatti detto: “… in passato, ho acquistato alcune delle più famose automobili gran turismo, e in ognuna di queste magnifiche automobili ho trovato alcuni difetti. Troppo calde, o poco confortevoli o non abbastanza veloci o non rifinite alla perfezione. Ora io voglio costruire una Gran Turismo senza difetti. Non una bomba tecnica. Molto normale, molto convenzionale, ma un’automobile perfetta”.

Un impegno notevole e il tempo era poco, ma ciò nonostante la 350 GTV, quando venne presentata, era già un capolavoro. Rispondeva perfettamente a ciò che aveva dichiarato inizialmente il fondatore, almeno riguardo alla parte meccanica. Forse meno indovinata, dal punto di vista pratico, risultò invece la carrozzeria, disegnata da Franco Scaglione, già stilista molto ammirato alla Carrozzeria Bertone. Era una linea indubbiamente drammatica, ma più degna di una Batmobile che di una GT, con un incredibile muso puntuto, grandi vetrature, un lunghissimo lunotto posteriore caratteristico della matita dello stilista ma che riduceva in maniera irrazionale l’apertura del cofano del bagagliaio, un trattamento complessivo delle superfici e dei dettagli degni più di un prototipo da salone che di un’automobile da mettere in produzione. Però il motore, messo al banco, dimostrò che i suoi 3,5 litri potevano produrre senza troppo sforzo ben 360 cavalli, con un ruggito degno del miglior V12 da corsa; le sospensioni indipendenti della GTV erano una novità per le Gran Turismo dell’epoca, e tutti i componenti, dal cambio ai freni, vennero scelti fra i fornitori esterni con l’unico scopo di avere il meglio possibile.

L’arrivo della Lamborghini in un mercato ristretto ma assolutamente concorrenziale, fino ad allora diviso fra Ferrari, Maserati, Aston Martin, Jaguar e pochissimi altri, generò un certo clamore. I più scettici misero seriamente in dubbio la possibilità, da parte di Lamborghini, di portare avanti il suo progetto senza avere una esperienza specifica in quel difficile settore. Ma chi lo conosceva bene si limitava a dire: aspettate e vedrete, Lamborghini sa quello che fa.

Il 1964 fu, guardandolo in retrospettiva, un anno veramente straordinario. La prima mossa di Lamborghini, appena ebbe capito che le reazioni alla carrozzeria di Scaglione erano state piuttosto fredde, fu di affidare una completa revisione di questo disegno, per renderlo più appetibile al pubblico, alla celebre Carrozzeria Touring di Milano. Le modifiche apportate da Felice Bianchi Anderloni al disegno originale crearono una linea che è diventata un classico, originale senza essere oltraggiosa. Era nata la 350 GT, di cui il Museo Lamborghini conserva un esemplare assolutamente perfetto.

Questa veloce berlinetta a due posti aveva tutte le carte in regola per piacere, anche se le vendite, ovviamente, furono all’inizio piuttosto modeste. Non tutti avevano il coraggio di abbandonare le marche più conosciute e affermate, Ferrari o Maserati, per consegnare un importante quantitativo di denaro a un costruttore fino a quel momento famoso solo per i suoi eccellenti trattori. Doveva spargersi la voce, bisognava vedere in giro quelle macchine e Lamborghini, infaticabile promotore della sua stessa azienda, non si faceva pregare per andare in giro con la sua creatura e mostrarla al mondo. Alcuni giornalisti, peraltro, capirono subito ed espressero senza troppe incertezze il loro entusiasmo sulla nuova automobile: Henry Manney III, uno dei migliori giornalisti americani, disse senza mezzi termini, su “CAR” del luglio 1965, che “questa automobile avrebbe fatto venire mal di testa alla Ferrari” e che “la Lamborghini è l’automobile sportiva più desiderabile che io abbia mai guidato”. Complimenti non di poco conto, considerato che Manney, all’epoca corrispondente di numerosi prestigiosi giornali americani e inglesi, era cliente Ferrari e possedeva una 250 GTO. L’evoluzione immediata e quasi inevitabile della 350 GT, di cui furono prodotti 135 esemplari, fu la 400 GT, con motore portato a 4 litri e il primo cambio disegnato e costruito in casa dalla Lamborghini: inizialmente basata sulla scocca a due posti e poi evoluta nella 400 GT 2+2, con due posti di fortuna dietro ai due principali, la 400 GT raggiunse la rispettabile cifra complessiva di produzione di 273 esemplari.

All’inizio del 1965 le berlinette di Sant’Agata iniziavano a farsi notare e qualche appassionato iniziava anche capire che sotto quella carrozzeria un po’ stravagante, che usciva dai canoni classici dei carrozzieri di grido, c’era una qualità meccanica davvero superiore, un’automobile veloce che sapeva essere confortevole sui lunghi viaggi. Le vendite iniziarono, gradualmente, a crescere, anche se si parla sempre di piccoli numeri, ovviamente d’élite.
Questa fu la prima grande fase della Lamborghini, uno dei momenti più prolifici e creativi. Fra ottobre 1965 e giugno 1966, la Casa bolognese presentò un numero impressionante di novità: ma se i prototipi 3500 GTZ (con la carrozzeria di Zagato), 350 Spider di Touring, la Monza 400 di Neri e Bonacini erano poco più che esemplari unici, il telaio apparentemente stravagante che la Lamborghini presentò nel suo stand al Salone di Torino del 1965 era destinato ad avere un profondo impatto sulla storia della Casa e dell’intero mondo dell’automobile.
La nascita di questo telaio è da ricondurre all’entusiasmo vero e genuino dei due giovani ingegneri messi da Ferruccio alla guida tecnica della sua fabbrica. Sia Dallara che Stanzani erano all’epoca giovani, appassionati, entusiasti; la fiducia che Lamborghini aveva dato loro, affidandogli la guida di questa nuova e straordinaria operazione, fece maturare velocemente nella mente dei due ingegneri idee nuove e più avanzate, basate su quelle che erano, all’epoca, le automobili di corsa allo stato dell’arte: le biposto corsa della categoria sport, una formula che era ben rappresentata da un’automobile anch’essa destinata a diventare una leggenda come la Ford GT40. Questa automobile aveva rotto completamente con la tradizione degli anni Cinquanta, rappresentata da Jaguar, Maserati, Ferrari e Aston Martin, dai loro grossi motori anteriori montati su telai tubolari vestiti con leggere carrozzerie di alluminio. Tutto questo era stato rivoluzionato dall’arrivo di automobili con motore posteriore centrale, montato su telai fatti di lamiera piegata e saldata. In questa maniera si otteneva una distribuzione dei pesi ottimale, una grande rigidità della struttura, la possibilità di realizzare integrazioni molto sofisticate fra i vari componenti della telaistica e della meccanica.

L’idea dei due giovani ingegneri bolognesi era proprio questa: portare su strada non più l’interpretazione della classica Gran Turismo tradizionale, ma una versione appena civilizzata di un’automobile davvero da corsa. Il loro progetto, battezzato maniera del tutto provvisoria 400 TP, aveva dunque il motore 12 cilindri 4 litri della 400 GT piazzato dietro l’abitacolo, in posizione trasversale, con il cambio e il differenziale uniti al basamento del motore in un’unica fusione; il telaio era di lamiera piegata, saldata e forata per ridurne il peso. Sfortunatamente, tutto questo sembrava essere, all’inizio del 1965, solo un progetto, senza nessuna speranza di applicazione pratica: lo stesso Lamborghini aveva sempre ripetuto e sottolineato che non gli interessavano progetti futuristici o stravaganti, voleva fare un’automobile normale, velocissima e senza difetti. I suoi ingegneri, invece, trovarono il coraggio di proporre un’automobile che andava, almeno apparentemente, nella direzione opposta: un’automobile potenzialmente velocissima, ma altrettanto sicuramente rumorosa, tutta da sperimentare e quindi difficilmente immune da difetti, però eccitante e modernissima.
La storia ci racconta che, quando Lamborghini vide il progetto, lo approvò seduta stante, sconvolgendo i due sorpresissimi progettisti, che non osavano sperare in una conclusione così felice della loro proposta. Per una volta, però, Lamborghini sbagliò le sue previsioni: dichiarò infatti che un’automobile così andava fatta, perché sarebbe stata una buona pubblicità per il marchio, anche se poi, chiaramente, non se ne sarebbero vendute più di cinquanta in tutto il mondo. Anche i grandi, ogni tanto, sbagliano.
Il telaio venne realizzato in tempi abbastanza rapidi, ed esposto al Salone dell’Automobile di Torino dell’ottobre 1965. Venne accolto, come all’epoca accadeva sempre ai prodotti di Lamborghini, con un misto di curiosità, interesse, incredulità e, talvolta, pura e semplice diffidenza. Molti ripeterono ancora una volta che sì, Lamborghini aveva messo in produzione le automobili normali, ma quel telaio! Quella meccanica! No, quel telaio così strano, tutto forato, come se fosse stato un pezzo d’aereo, con il motore dietro l’abitacolo, non sarebbe mai andato in produzione.

Uno che credeva in quel telaio e soprattutto nelle capacità di Lamborghini era Nuccio Bertone. Il carrozziere torinese era uno che di automobili e di motori se ne intendeva, e molto: non appena ebbe visto il telaio andò da Lamborghini e gli disse “io sono quello che può fare la scarpa per il tuo piede”. Si strinsero la mano e iniziò così un’avventura straordinaria. Il responsabile dello stile di Bertone, Giorgetto Giugiaro, aveva appena lasciato l’azienda per fondare la sua propria casa, la Ital Design: il suo posto era stato preso da uno stilista giovane come Dallara e Stanzani, Marcello Gandini. Toccò a lui interpretare le idee di Bertone, creando per il telaio bolognese una carrozzeria unica e sensazionale, qualcosa che, nella sua miscela di aggressività, eleganza, originalità e classe fu poi destinato a rivelarsi irripetibile: era nata la Miura.
Perché sia chiamata così, in realtà, non si sa. Soprattutto, Ferruccio non ha mai voluto rivelare che cosa gli avesse suggerito l’analogia con questa razza di torri straordinaria e fortissima, che è un mito della tauromachia spagnola. Di sicuro a lui, che era nato sotto il segno del Toro e che proprio da questo segno aveva ricavato l’orgoglioso blasone di tutte le sue attività industriali, chiamare un’automobile con il nome di un toro da combattimento doveva venire naturale. Quello che può sorprendere è che, scegliendo il primo nome per la sua prima automobile di grande impatto mondiale, egli scegliesse istintivamente il nome migliore e più indicato.
Infatti i tori Miura, secondo gli intenditori, non sono tori normali. Sono i più forti, ma soprattutto i più intelligenti e cattivi, nel senso militare del termine, di tutti i tori da combattimento. I toreri parlano spesso, nei loro libri, dello sguardo inconfondibile dei Miura: uno sguardo da combattenti veri, astuti e forti. Il nome era quindi particolarmente azzeccato, fulmineo nelle sue cinque lettere; però Lamborghini non aveva mai conosciuto don Antonio Miura, ed è qui che nasce il mistero della scelta di questo nome. Fatto sta che così avvenne, e lo stesso Miura, dopo un primo momento di disappunto per il nome dato a un’automobile italiana senza che nessuno glielo avesse preventivamente richiesto, si dimostrò contento, ospitando più volte Lamborghini nel suo magnifico allevamento vicino a Siviglia.

Il lavoro per preparare la Miura divenne immediatamente frenetico. Gandini raccontò poi che da ottobre a febbraio lavorarono tutti ventiquattr’ore al giorno, tutti i giorni della settimana, per rispettare un appuntamento imperdibile: il Salone dell’Automobile di Ginevra del 1966. I problemi, inevitabili nella costruzione di qualsiasi prototipo, erano in quel caso ancora più ingigantiti dal fatto che l’automobile doveva essere messa subito in produzione, quindi dovevano essere scartate tutte le soluzioni che non avrebbero potuto essere immediatamente applicate sulla vettura stradale. Fu una lotta titanica: eppure, per quell’incrocio di forze positive che ogni tanto benedice il lavoro degli uomini e lo eleva a un livello superiore a quello della routine di tutti i giorni, tutto andò per il verso giusto. La linea della Miura venne perfetta sin dal primo momento e il prototipo assemblato praticamente senza problemi; i collaudi mostrarono la necessità di effettuare solo qualche modifica tutto sommato di dettaglio. Il miracolo, effettivamente, fu proprio quello: che il telaio presentato come prototipo del tutto sperimentale nell’autunno del ‘65 era diventato, in quattro mesi soli, la più bella automobile stradale del mondo.
A Ginevra, la Miura fu la regina incontrastata del Salone. Erano sempre di meno coloro che dicevano che un’automobile così avanzata non sarebbe mai andata in produzione e dovevano esprimere il loro scetticismo sottovoce, quasi di nascosto, perché la Miura lasciò estasiato chiunque la vide. Gli ordini iniziarono immediatamente a piovere sulla scrivania di Ferruccio e del suo direttore commerciale dell’epoca, Ubaldo Sgarzi. L’entusiasmo era alle stelle e, con un colpo di teatro sensazionale, Lamborghini riuscì a elevarlo ancora portando la Miura al gran premio di Montecarlo, senz’altro il fine settimana più clamoroso per le automobili sportive in generale e per quelle di altissimo livello in particolare. La Miura arancione che lui parcheggiò davanti all’hotel de Paris il sabato pomeriggio, attrasse tanti spettatori da bloccare completamente la piazza del Casinò, generando ancora più entusiasmo, interesse e ordini. Un risultato semplicemente travolgente.
Nell’ottobre del 1967, a soli tre anni dalla prima, esitante apparizione a Torino, la Lamborghini si presenta quindi al Salone automobilistico italiano con uno straordinario impero. La gamma delle sue vetture è ora davvero ammirevole: ufficialmente è ancora disponibile la 350 GT, che è però in realtà ormai fuori produzione. Nella realtà, la coppia d’oro costituita dalla 400 GT 2+2 coupé e dalla Miura calamita gli sguardi di tutti gli intenditori verso lo stand della giovane Casa bolognese, che è diventata, dall’oggi al domani, la vera star di tutti i giornali di automobili. Allo stesso Salone compare anche una creazione della prestigiosa carrozzeria Touring, ma è il canto del cigno: la originale Flying Star II, basata sul telaio a motore anteriore della 400 GT, è l’ultima automobile di questa casa prima della chiusura per fallimento, cosa che porterà alla scomparsa di una delle più prestigiose firme italiane e alla dispersione almeno parziale del suo straordinario patrimonio storico.

È il 1967 e Lamborghini può adesso guardare al futuro con maggiore ottimismo. La pioggia di ordini della Miura ha portato alla sua azienda denaro fresco e soprattutto ha generato un interesse e una pubblicità senza pari. Lamborghini aveva visto giusto: un’automobile così era destinata a sconvolgere il cuore e la mente di tutti gli appassionati e il suo diventa un nome-simbolo del mondo dell’auto, il simbolo dell’eccesso, dell’andare ‘oltre’ a ogni costo, del fare sempre di più e meglio di tutti i rivali, senza pregiudizi né limiti convenzionali. Questa impostazione non impedisce a molti appassionati di continuare a comperare ed apprezzare la 400 GT, modello serio e ormai maturo, ma la Miura dà all’azienda un lustro del tutto speciale.
Anche questo anno si apre con un’apparizione straordinaria e stavolta il tema, concepito totalmente da Bertone e Gandini, è quello di una strabiliante vettura a quattro posti, con motore posteriore a sbalzo dietro l’assale e con sensazionali portiere a farfalla. Per la prima volta, su questa esotica vettura chiamata Marzal compare il tema dell’apertura verticale delle portiere, che poi, nel futuro, caratterizzerà in maniera sempre più evidente le Lamborghini della fascia più alta.
La Marzal non è destinata alla produzione. Per rispettare gli ingombri predefiniti, la sua meccanica è diversa da quella, di altissima potenza e sofisticazione, a cui la Lamborghini ha già abituato i suoi clienti: dietro all’assale posteriore troviamo infatti un motore che è solo la metà del classico V12 bolognese, dunque un 6 cilindri in linea di 2 litri di capacità, con una potenza dichiarata di circa 180 cavalli, evidentemente non all’altezza delle aspirazioni prestazionali di una vettura che porta questo marchio. Ciò non impedisce alla Marzal di diventare protagonista di numerosi saloni, di essere celebrata sulle copertine dei giornali di mezzo mondo e di essere addirittura scelta dal principe Ranieri di Monaco per aprire, con la principessa Grace al fianco, il Gran Premio di Montecarlo di quell’anno. Anche in questo caso, il flair per la pubblicità di Ferruccio Lamborghini si rivela superiore.
Dopo tanto clamore, però, è necessario mettersi al lavoro e raccogliere i frutti di tutti questi successi. Il 1967 è anche un anno di programmazione, di messa in produzione della Miura, di sacrifici e di impegno durissimo per trasformare questo brillante concetto in un’automobile vera. I primi esemplari, non sorprendentemente, mostrano i loro difetti di gioventù. Sono necessarie parecchie modifiche per rendere la prima Miura un’automobile soddisfacente, ma, a dire il vero, i clienti non se ne preoccupano. Questa strabiliante vettura diventa subito un simbolo, prima di tutto, di ricchezza: si parla di automobili molto costose, come una Murciélago del giorno d’oggi ma con una necessità molto maggiore di manutenzione e attenzioni. E poi è un’espressione di gioventù, o perlomeno di uno spirito autenticamente giovane: la Miura è bassissima, entrare e uscire è quasi un esercizio ginnico, solo un entusiasta assoluto di questo genere di automobili può sottoporvisi volentieri.

Ma è soprattutto la macchina più di moda del momento, equivalente in pratica, sia pure all’estremo opposto della scala di prezzo, della Mini; è un’automobile che i veri ricchi debbono avere, perché è un simbolo, perché è un’automobile che come nessun’altra esprime la sfrontatezza, la voglia di vivere, la libertà di viaggiare che caratterizzava quel momento. Le autostrade, appena costruite, sono perfette, diritte, vuote e prive di limiti di velocità. La Miura può raggiungere i 280 chilometri all’ora, una velocità assolutamente pazzesca in un’Italia popolata ancora solo da qualche Fiat 500, 600 e, per i più ricchi, la 1100 o la Giulietta. Esplode in quegli anni la moda della minigonna, espressione di una nuova gioia di vivere; la personalità esplosiva e carnale della Miura si accompagna perfettamente a questa rivoluzione nel modo di vestire e di pensare, diventa parte di un’epoca come i suoi sfrontati colori più recenti, assolutamente nuovi, senza pari. Una Miura arancione o verde acido nello scarso traffico grigiastro dell’epoca è un pescecane in una vasca di pesci rossi, cancella e rende invisibile qualsiasi altra automobile. Diventa dunque dall’oggi al domani, quasi inevitabilmente, l’automobile preferita dai playboy, dagli attori di grido, industriali, musicisti e reali di tutto il mondo: chi conta davvero guida una Miura, o almeno ne ha ordinato una. Lo Scià di Persia, Frank Sinatra, Dean Martin sono solo alcuni fra i più affezionati clienti di questa vettura, e per loro Lamborghini diventa un nome familiare.
Mentre Dallara e Stanzani lavorano, con l’aiuto del collaudatore neozelandese Bob Wallace, per migliorare l’automobile in produzione, Ferruccio, come sempre pieno di idee, sta spingendo per mostrare al mondo nuovi modelli. Non è solo per vanità: la presentazione della Miura Roadster, al Salone dell’Automobile di Bruxelles del 1968, serve anche per saggiare le reazioni dei clienti alla possibilità di introdurre un modello scoperto nella propria gamma. Nonostante l’entusiasmo professato a parole, però, questa variante riceve relativamente pochi ordini, e quindi rimane confinata allo stadio glorioso ma senza seguito di prototipo da salone. Più importante è la presentazione ufficiale alla stampa, il 16 febbraio del 1968, della Jslero, che ha un prezzo piuttosto elevato, 6.450.000 lire; i suoi 300 cavalli la rendono comunque un’automobile del tutto degna del suo prestigioso marchio e con un interno sempre più confortevole e rifinito. È la Gran Turismo che sogna Lamborghini, l’erede naturale della 400 GT, la cui produzione va a cessare a seguito della chiusura della carrozzeria Touring. Realizzata da uomini che erano stati anche alla Touring, come Mario Marazzi, la Jslero è una berlinetta 2+2 posti di bella presenza, abbastanza elegante, e con la stessa meccanica della 400 a cui subentra. La clientela Lamborghini si è però abituata agli accessi stilistici della Miura, e così le vendite della Jslero risultano relativamente modeste.

Diverso successo, invece, attende l’altra grande novità presentata nello stand Lamborghini al Salone di Ginevra di quell’anno. La Espada, derivata alla lontana dalla linea della Marzal, è una strabiliante automobile a due porte, con motore anteriore e quattro veri posti comodi, ricavati in una carrozzeria con passo allungato a 2650 mm, dall’andamento stilistico del tutto originale e realmente innovativo. È l’espressione compiuta del momento forse più felice, dal punto di vista creativo e formale, di Marcello Gandini. Rivoluzionaria e assolutamente nuova: dal bilanciamento dei due volumi principali al grande lunotto vetrato, che in realtà è il portellone del vano portabagagli, dal grande cofano piatto anteriore, che si solleva in un blocco unico fino alla sommità del passaruote, alla linea di cintura bassa e slanciata, al passaruota posteriore che copre parzialmente la ruota, alle prese d’aria NACA sul cofano. Anche in questo caso, gli ordini arrivano cospicui, perché il marchio Lamborghini è ormai affermato e la formula della Espada è decisamente convincente.
Però Ferruccio ha messo forse troppa carne al fuoco. La squadra tecnica della Casa, i fornitori, gli operai e tutte le maestranze fanno fatica a tenere il passo con l’esplosione di questa attività, per la quale tutto deve essere più o meno creato da zero. Fino all’esplosione del fenomeno Miura, nella prima metà del ‘66, i ritmi erano ancora quelli di una normale fabbrica metalmeccanica della zona. Dopo aumentano vertiginosamente e gli sforzi di tutti i debbono moltiplicarsi, dividendosi però al tempo stesso fra più modelli. Tutto ciò genera inevitabilmente una serie di problemi che si riflette nell’allungamento dei tempi di gestazione di questi modelli e nella crescente impazienza dei clienti, i quali, ora che gli è stato mostrato il futuro delle automobili sportive, non vogliono aspettare troppo a lungo la Lamborghini che hanno prenotato.
Indubbiamente, il ‘collo di bottiglia’ rappresentato dalla trasformazione del prototipo in vettura stradale rappresenta ora il maggior ostacolo per il successo finanziario della Casa: nel 1968, la Lamborghini riesce infatti a consegnare in tutto 37 Espada e 187 Miura, più alcune Jslero e nient’altro. Certamente poco, per sostenere lo sforzo economico del fondatore, il quale però è più che fiducioso, e, in fondo, con giusta ragione: in meno di cinque anni, la Casa automobilistica da lui fondata è già diventata un mito.
Nonostante le difficoltà logistiche e organizzative del momento, nessuno riesce a stare fermo. Si sono appena avviate, nel 1969, le linee di produzione dei tre modelli (Jslero, Espada e Miura), che già si pensa ai miglioramenti. L’operazione più importante è senza dubbio l’accorpamento in un’unica nuova versione di tutta una serie di modifiche realmente necessarie alla Miura, cosa che fa nascere, nel novembre del 1968, la versione S. Presentata quasi obbligatoriamente all’edizione di quell’anno del Salone di Torino, la nuova Miura offre ai suoi clienti un motore da 370 cavalli, cioè 20 di più rispetto alla versione precedente, sono stati installati alzacristalli elettrici, tutto l’interno è stato rifinito e, in opzione, sono stati resi disponibili anche il condizionatore d’aria (all’epoca ancora una novità quasi stravagante, almeno in Europa) e il rivestimento in pelle naturale degli interni. Solo la cromatura di alcuni piccoli dettagli esterni, e una piccola ‘S’ metallica sagomata come un fulmine, sul pannello di coda della vettura, permettono di riconoscere la nuova versione della Miura dalla vecchia, che termina la sua carriera.

E non è l’unica novità Lamborghini. Ferruccio non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per il comfort delle autovetture Citroën e sulla Espada offre quindi un’opzione all’epoca del tutto sconosciuta, cioè un sistema di sospensione idropneumatica ispirata proprio a quella della casa francese, denominata ‘Lancomatic’. È un’iniziativa indubbiamente coraggiosa, perché punta ad offrire, per la quattro posti bolognese, un livello di comfort realmente superiore. Naturalmente anche questa opzione avrà pochissima fortuna, come del resto era accaduto per il cambio automatico, pure offerto su richiesta ai clienti di questa vettura. Però anche questa cura nel dettaglio permette di capire la ricerca dell’eccellenza che era alla base dello studio dei vari modelli. La Jslero viene poi elaborata, potenziata, rifinita e così nasce, il 31 maggio del 1969, la versione GTS. Nonostante le buone prestazioni, il motore da 350 cavalli, la complessiva comodità e le linee accattivanti, la Jslero è però ormai definitivamente finita nell’ombra della Espada e soprattutto della Miura, cui è troppo vicina come prezzo per non rimanerne vittima.
Il 1970 vede un momento di temporanea stabilizzazione nella gamma-modello della Lamborghini. La Jslero esce di scena, silenziosamente, quindi, dopo che ne sono stati prodotti relativamente pochi esemplari (225 tra Jslero e Jslero GTS); rimangono invece, e la loro produzione aumenta gradualmente, sia la Miura S che la Espada, riveduta e corretta in una Seconda Serie che viene presentata nel 1970, in occasione del Salone di Bruxelles. Questa nuova serie ha numerose rifiniture, il motore da 350 cavalli, freni autoventilanti più potenti e un cruscotto ridisegnato secondo linee più convenzionali. È un anno di gloria per questo modello, che rappresenta un ideale traguardo non solo per la Casa, ma anche per Ferruccio e per gli obiettivi che si era prefissato all’inizio di questa avventura. Nel solo 1970, infatti, si vendono 228 esemplari della Espada, un risultato eccezionale per un’automobile di tale costo e importanza.
Non tutte le ciambelle, però, riescono col buco. Lamborghini insiste sulla necessità di affiancare, alla quattro posti Espada e alla due posti ’secchi’, la Miura, una via di mezzo, una 2+2 che rappresenti il meglio della Gran Turismo italiana. Bertone risponde con un modello che rappresenta un’evoluzione stilistica della Jslero, riprendendo molti temi della Espada, e che dovrebbe quindi incarnare i suoi ideali. È la Jarama, che però, nonostante una lancio in grande stile al Salone di Ginevra del 1970, non riesce a fare la dovuta impressione sugli appassionati. È un’automobile potente, originale, ben finita, ma forse manca di un pizzico di audacia, di quella maggiore spettacolarità di linee che avrebbe potuto farne un vero capolavoro. In un certo senso, la Jarama è una perfetta figlia degli anni Settanta, un po’ spigolosa, con un padiglione tagliato netto e dritto, l’impressione generale di un certo squilibrio fra le forme anteriori e posteriori. L’influenza di alcuni disegni di Pininfarina è comunque evidente, specialmente nella coda, e questo contribuisce a un’aria di generale eleganza della vettura, che, però, come la Jslero, non ha il successo sperato. Ormai, in tutto il mondo, Lamborghini è considerata il simbolo dell’eccesso, di qualcosa che va oltre il pensiero e le realizzazioni delle altre case automobilistiche. Quando costruisce automobili ragionevoli, razionali, quasi normali, non risponde a questi criteri e non ottiene quanto sperato.

L’altro grande progetto che viene annunciato e presentato nel 1970 è quello per un’altra Lamborghini, stavolta radicalmente nuova e ‘diversa’: la P250 Urraco. Ancora il nome di un toro da combattimento, ancora un motore posteriore, trasversale, ancora una linea estremamente sportiva, di grande impatto visivo. Però stavolta si guarda a un mercato più ampio, a una clientela più vasta: la Urraco nasce infatti con un motore 2,5 litri, disegnato ex novo da Stanzani con distribuzione monoalbero in testa. È costruita secondo criteri che si prestano a una fabbricazione in larga serie (almeno per gli standard delle automobili sportive italiane), ha una bella linea disegnata da Bertone e le sue prestazioni sono, almeno sulla carta, eccellenti, con un prezzo di gran lunga inferiore a quello della Miura.
Per realizzare questa vettura, Lamborghini espande la fabbrica di Sant’Agata, facendo costruire un nuovo ampio capannone dietro a quello già utilizzato, creando un nuovo spazio di lavoro di quasi 5000 metri quadrati. I presupposti sono dunque più che buoni. La presentazione, che avviene puntualmente nell’ottobre del 1970, al Salone di Torino, suscita grandi emozioni e gli ordini piovono copiosi. Come per la Miura, il pubblico reagisce con grande entusiasmo al nuovo prodotto Lamborghini e stavolta non c’è né la perplessità di un marchio semisconosciuto, né un prezzo altissimo a scoraggiare i potenziali acquirenti: le vendite vanno quindi subito benissimo.
Il successo continua intanto ad arridere, in maniera formidabile, alla Miura. Il netto miglioramento della sua qualità complessiva, avvenuto con la versione S, porta a un rafforzamento della sua posizione sul mercato e la Lamborghini continua a produrre più che può, senza però riuscire a tenere dietro agli ordini provenienti da tutto il mondo, che sono centinaia. Il prototipo della versione aperta, la Roadster, viene venduto a una ditta americana specializzata nello zinco (ILZRO) e tutte le parti metalliche suscettibili di tale trattamento vengono cambiate con parti identiche, ma realizzate con quel metallo: così la Roadster può essere utilizzata come manifesto viaggiante della ditta. Questa automobile, tra parentesi, esiste ancora. Ma il 1970 porta anche novità per così dire minori, eppure molto importanti. In ottobre viene presentata una versione speciale Vip della Espada che monta varie rifiniture lussuose, all’epoca inusuali, come condizionatore, bar interno, televisore.
Molto più importante, per la storia e gli appassionati della Lamborghini, è la creazione e l’inizio dei collaudi del prototipo di una Miura da corsa, dovuta essenzialmente all’impegno del collaudatore neozelandese Bob Wallace: la Jota. Il nome di questa vettura, per una volta, non proviene dal mondo dei tori da combattimento, ma ha comunque un sapore spagnolo, visto che la Jota è una danza tipica di quella zona. Il cambiamento del nome ha un significato ben preciso: infatti, in questo caso, Wallace non fa un’operazione semplicemente cosmetica, come molti altri usano fare, ma realizza un’automobile da corsa che della Miura ha solo lo schema meccanico (in particolare il motore posteriore centrale trasversale dietro all’abitacolo e le linee generali della carrozzeria). Il telaio, invece, è completamente nuovo, realizzato con elementi tubolari e in lamiera piegata, uniti e combinati per migliorarne la rigidità. La carrozzeria è d’alluminio, tutto il telaio è decisamente migliorato, il motore è notevolmente potenziato e arriva quindi ad erogare 440 cavalli a 8500 giri.

L’automobile così modificata e alleggerita fino a raggiungere un peso di soli 890 chilogrammi, ha prestazioni eccellenti: passa da zero a 100 chilometri all’ora in soli 3,6 secondi! Inoltre, la tenuta di strada viene notevolmente migliorata grazie all’irrigidimento del telaio, al montaggio di sospensioni modificate per l’uso sportivo, al notevole allargamento della carreggiata e al montaggio di pneumatici da corsa su cerchi speciali Campagnolo. Esternamente, la Jota si riconosce al primo colpo d’occhio per i fari carenati sotto una copertura di plexiglass, l’allargamento dei passaruota soprattutto posteriori, l’abolizione delle griglia sul cofano anteriore, il montaggio di piccoli finestrini scorrevoli laterali e i caratteristici cerchi in lega di magnesio. È un’automobile inconfondibile, velocissima e brutale, ideale preludio all’ingresso della Lamborghini nel mondo delle competizioni. Purtroppo, la Jota non ha alcun seguito. Finito il suo ciclo di utilizzazione sperimentale in fabbrica, l’unico esemplare costruito viene venduto a un concessionario del Nord Italia, che provvede nel giro di poche ore a distruggerlo completamente in uno spettacolare incidente stradale. Viene così a mancare, irreversibilmente, uno dei tasselli più eccitanti dei primi anni di storia della Lamborghini.
Nel 1971, la Lamborghini è all’apice del suo successo. In meno di otto anni, Ferruccio ha raggiunto il suo scopo: dal nulla, ha creato una fabbrica di automobili che non soltanto è conosciuta in tutto il mondo, ma è diventata una vera e propria leggenda. Le sue automobili, in particolare la Miura, hanno raggiunto uno status tale da aver messo in ombra tutte le più famose concorrenti, in primo luogo quelle di Maranello, pur non avendo mai voluto investire neppure una lira nelle corse… Lamborghini non crede infatti che le corse aiutino a migliorare le automobili sportive, né che aumentino le vendite; e i fatti, fino a quel momento, gli danno ragione.
Ma l’industriale bolognese, che nel frattempo ha inaugurato altre attività industriali nei settori dell’oleodinamica e altri componenti, non è comunque un uomo da riposare sugli allori. Continua a spronare i suoi tecnici, che comunque non necessitano di troppi incoraggiamenti, per introdurre tutta una serie di ulteriori modifiche (in parte derivate dall’esperienza fatta con la Jota) sulla Miura, creando così la versione definitiva e assoluta di questo leggendario modello: la SV, presentata al Salone di Ginevra del 1971. Più bassa, larga, con una gommatura più generosa e motore portato a 385 cavalli, la SV è bella quanto veloce: l’adozione di lamiera più spessa e quindi robusta per il telaio, il perfezionamento delle sospensioni, l’attesa separazione fra il lubrificante del motore e quello del cambio fanno di questa versione la più riuscita, veloce e performante dell’intera serie.
Nonostante questa riuscita evoluzione, la SV esposta al Salone di Ginevra del 1971 passa quasi inosservata, e sono pochi quelli che le attribuiscono l’importanza che poi, nel tempo, ha acquisito questa versione pressoché perfetta della supercar più nota della Casa bolognese. La ragione è semplice: tutti sono distratti da un’automobile ancora più spettacolare e straordinaria, che risulta essere la vera star non solo dello stand Lamborghini ma di tutto il Salone. Un’automobile nata da un colpo di genio combinato di Lamborghini e Bertone, che i fidati luogotenenti Stanzani e Gandini hanno concretizzato come al solito a tempo di record e con il massimo possibile della spettacolarità: la LP 500, meglio nota come Countach.
È un’automobile davvero rivoluzionaria. Innanzitutto per la linea, la prima cosa che lascia sbalordito e ammirato chiunque la ammiri a quel Salone. Un muso sottile e aggressivo, il parabrezza piatto, raccordato senza soluzione di continuità al cofano anteriore da una parte e al tetto dall’altra, tetto che poi a sua volta continua al di sopra del cofano motore, sempre in un’unica curva progressiva che va dal paraurti anteriore al pannello di coda della carrozzeria. Un concetto stilistico innovativo, sconvolgente, completamente inedito: ancora una volta, la Lamborghini sconvolge i preconcetti, ribalta ciò che fino a quel momento si era fatto, prosegue un suo discorso lontano da ciò che fanno i concorrenti che si trovano a seguire la piccola Casa bolognese con sempre maggiore affanno, senza uscire da una posizione che sta gradualmente diventando di secondo piano.

La Countach di Ginevra è ancora un prototipo, ma si sa già che andrà in produzione, stavolta nessuno ne dubita, anche se il suo motore V12 5 litri, espansione un po’ troppo ottimistica del classico 4 litri, dovrà poi essere ridimensionato; e c’è anche la difficoltà di sviluppare al meglio questa trasmissione intricata e inedita, nella quale il cambio sta davanti al motore, piazzato longitudinalmente, e dal cambio l’albero di trasmissione per il differenziale passa attraverso il blocco motore. Non importa: la Countach è un’automobile mozzafiato, sconvolgente. I clienti litigano per avere la prima, la seconda prodotta, Lamborghini torna da Ginevra con le tasche piene di ordini.
Quello che sta però cambiando, attorno alla Lamborghini, è la situazione sociale nazionale e internazionale. Le agitazioni sindacali e popolari creano una difficile situazione all’interno delle fabbriche, in particolare di quelle metalmeccaniche del Nord Italia, nelle quali il controllo del proprietario viene apertamente contestato e l’organizzazione del lavoro diventa sempre più difficile. Per Lamborghini, da sempre abituato a una gestione diretta, talvolta ruvida e un po’ paternalistica ma molto attenta delle sue fabbriche, questa nuova situazione non è più tollerabile. Nel 1972 vende quindi il pacchetto di maggioranza delle sue azioni a uno svizzero, Georges-Henri Rossetti e l’anno dopo il resto delle sue azioni a René Leimer, suo amico. Esce quindi definitivamente di scena il fondatore dell’azienda, colui che ne aveva animato la straordinaria, vitale esplosione dei primissimi otto anni.
L’attività dell’azienda continua comunque a pieno ritmo. Nel 1972 sono in piena produzione la P250 Urraco, la 400 GT Jarama, la 400 GT Espada e la P400 Miura SV. In quell’anno, nel tentativo di migliorare le vendite abbastanza deludenti, la Jarama viene potenziata con un motore da 365 cavalli e diventa quindi la Jarama S. Ma neanche questa nuova versione, caratterizzata da nuovi cerchi in lega e da una serie di miglioramenti anche interni, riuscirà a risollevare le sorti commerciali di un modello ottimo ma sfortunato, forse messo troppo in ombra della spettacolarità delle sue sorelle a motore posteriore.
Il 1972 è anche l’anno nel quale viene messa in effettiva produzione la Urraco, che aveva avuto all’inizio numerosi rallentamenti. Quasi inevitabilmente arriva anche la versione S, nell’ottobre di quell’anno, nella quale più che a un aumento di prestazioni si punta a migliorare la qualità complessiva, che la fretta nella messa in produzione iniziale aveva fatto un po’ trascurare.
L’anno dopo, mentre si attende che lo sviluppo del prototipo Countach permetta di raggiungere uno stadio tale da approntarne la produzione in piccola serie, viene modificata e perfezionata ulteriormente l’Espada, la cui terza serie viene presentata nell’ottobre del 1972. Nuovi cerchi, perfezionamenti di dettaglio in tutta la carrozzeria, nel cruscotto, nella plancia centrale e di vari componenti caratterizzano questa ben riuscita terza serie, che rappresentava il picco definitivo dell’evoluzione di questa eccellente vettura a quattro posti, ancora richiesta con molto interesse dagli appassionati di tutto il mondo. La sua produzione arriverà a totalizzare la rispettabile cifra di 1226 unità, un numero elevatissimo per un fabbricante di queste dimensioni e con prezzi di listino di altissimo livello.
La Countach di produzione, denominata LP 400 perché il suo V12, sempre posizionato dietro l’abitacolo e con orientamento longitudinale, è stato riportato alla sua cilindrata ideale di 4 litri (3929 cc), compare al Salone di Ginevra del 1973. È cambiata poco rispetto al prototipo esibito due anni prima: sono comparse le caratteristiche prese d’aria per il motore, subito dietro l’abitacolo, che accentuano l’aggressività della sua linea, rendendola ancora più spaziale. Nel frattempo, a Sant’Agata, i nuovi proprietari decidono di permettere a Bob Wallace di realizzare delle automobili concettualmente analoghe alla Jota sulla base sia della Jarama che della Urraco. Anche questi modelli, dichiaratamente indirizzati all’uso in pista, rimasero esemplari unici, ma almeno non finirono distrutti e sia la Jarama che la Urraco Bob sopravvivono oggi in collezioni private.

La Countach davvero di serie arriva alla fine del 1973, con l’esemplare verde brillante esposto al Salone di Parigi, ora parte della collezione permanente del Museo Lamborghini. È la prima Countach nella quale appare il grande tergicristallo unico anteriore. La gamma-modello del 1974 comprende quindi Countach, Espada Terza Serie, Jarama S e Urraco S. Iniziano le prime consegne della Countach e i clienti Jarama e Espada possono specificare, a partire dal mese di marzo, il cambio automatico per le loro vettura. Pochi, naturalmente, sfrutteranno questa possibilità.
Il mondo, intanto, cambia. La crisi petrolifera iniziata dalla guerra fra arabi e israeliani del 1973 crea un alone di paura attorno ai rifornimenti di carburante, e le grosse, assetate vetture supersportive diventano ben presto oggetti fuori moda, ritenuti espressione di un lusso ingiustificabile e di uno sfruttamento non più accettabile di troppe risorse naturali del nostro pianeta. Posizioni estremistiche, destinate a passare, ma che in quel momento creano enormi difficoltà a tutti i fabbricanti di questo genere di vetture. Iniziano le limitazioni del traffico, le domeniche senza automobili, gli americani introducono tasse sulle automobili che consumano troppo e viene ristretta la fornitura di prodotti petroliferi; in più vengono introdotti limiti di velocità nuovi e molto stringenti. L’effetto immediato è devastante, in particolare per i costruttori di automobili sportive. La Lamborghini, a causa della sua collocazione nel segmento estremo delle superautomobili, viene colpita in maniera particolarmente dura, e reagisce come può. La presentazione di due nuovi modelli Urraco, cioè in pratica lo sdoppiamento della gamma P250 in un modello 2 litri (P200), sempre dotato di motore monoalbero ma con cilindrata ridotta per rimanere al di sotto delle barriere fiscali, e un più potente e maturo modello 3 litri (P300), con una distribuzione bialbero in testa e potenza portata a 250 cavalli, tenta di sopperire ai problemi del momento.
Il graduale peggioramento della situazione sociale e la diminuzione delle vendite portano alla necessità di razionalizzare la gamma di produzione. La Jarama esce praticamente di produzione, mentre al Salone di Torino del 1974 Bertone propone uno studio molto interessante sulla base della meccanica P300: la Bravo è una berlinetta cuneiforme, con un trattamento inedito del cofano anteriore e posteriore, la vetratura anteriore e laterale è giuntata senza che vi siano montanti in vista. Su questa vettura appaiono, per la prima volta, le caratteristiche ruote con cinque fori che diventeranno poi, nel tempo, un vero e proprio segno distintivo di tutte le Lamborghini più potenti. Il prototipo non ebbe seguito, nonostante molti appassionati ne chiedessero un esemplare: la situazione era troppo difficile per dedicarsi a versioni che richiedevano investimenti di rilievo.
Non per questo, però, si smise di guardare avanti, e di cercare di andare incontro alle esigenze del mercato. Il successo ottenuto dalla Porsche, da sempre costruttrice di riferimento nel settore delle automobili sportive di classe elevata, con la sua Targa, aveva dimostrato che nel mondo esistevano sempre molti appassionati pronti a spendere una cifra significativa per avere una vettura scoperta ad alte prestazioni. Se la tendenza legislativa in tutto il mondo era quella di proibire gradualmente automobili scoperte con il tetto in tela, la trovata della vettura con un ampio roll-bar e lunotto rigido, con il solo tetto centrale staccabile, poteva comunque raccogliere molti consensi.

Con questa ispirazione e partendo dalla eccellente base meccanica dell’ormai perfezionata Urraco P300, la Lamborghini decide dunque di sviluppare, assieme a Bertone, un modello con tetto asportabile. Presentata al Salone di Ginevra del 1976, la Silhouette è un’automobile aggressiva, dall’aspetto inconfondibile soprattutto per l’allargamento del passaruota anteriore e posteriore realizzato con un’inedita soluzione ’squadrata’, anziché quella, più tradizionale ed esaminata sui primi prototipi, che riprendeva la curvatura del pneumatico. La Silhouette ha il motore 3 litri V8 della Urraco P300 portato a 260 cavalli, sempre in posizione posteriore, centrale e trasversale, scocca e carrozzeria sono completamente realizzati in acciaio. Questo fa sì che l’automobile sia abbastanza pesante, ma la sua qualità complessiva è elevata, come d’altra parte il suo prezzo: in Italia, la Silhouette viene presentata il 26 febbraio 1976 con un prezzo di listino di quasi 15 milioni, non molto più basso di quello della ben più potente e stravagante Countach, che non raggiungeva i 18 milioni. Ovviamente, il prezzo altissimo finì per limitarne grandemente la diffusione. La produzione complessiva di questo raro modello totalizzò infatti solo 54 esemplari nell’arco di tre anni, cosa che la rese una delle Lamborghini più rare e esclusive.
Le difficoltà commerciali e produttive portarono il responsabile della Lamborghini a cercare collaborazioni esterne, per utilizzare meglio impianti che, a causa della crisi di vendite, rimanevano in larga parte inattivi. La collaborazione più significativa fu impostata nel 1976 con la Bmw Motorsport, guidata all’epoca da Jochen Neerpasch. Il contratto prevedeva la progettazione e successivamente la realizzazione di un’automobile supersportiva con motore posteriore centrale, secondo concetti nei quali la Lamborghini aveva più esperienza e immagine di chiunque altro al mondo; il motore avrebbe dovuto essere il 6 cilindri in linea della Casa di Monaco. Il contratto era comunque molto profittevole e poteva assicurare una tranquilla sopravvivenza alla Casa bolognese per qualche anno: una preziosa opportunità in quei tempi difficili.
Purtroppo, intervenne un’altra vicenda a complicare ulteriormente le cose: a seguito di contatti presi con l’ambiente dei fornitori militari di veicoli fuori strada, e in particolare con la MTI (Mobility Technologies International), i proprietari della Casa decisero di affrontare la progettazione e la realizzazione di un veicolo completamente diverso da quelli fino ad allora prodotti a sant’Agata, cioè un fuoristrada vero e proprio, ad alte prestazioni e con elevatissime capacità di mobilità sui terreni più difficili. La Cheetah, le cui principali specifiche tecniche vennero dettate nei minimi dettagli dal committente americano, nacque con questa impostazione, ed essendo destinata a usi esclusivamente militari, in ambienti estremamente difficili e con scarsa possibilità di assistenza e manutenzione, si dovette utilizzare un grosso motore americano anziché, come era consuetudine, un motore prodotto dalla Lamborghini stessa.
Purtroppo vari inconvenienti tecnici e legali rendono impossibile la realizzazione della Cheetah, che richiede investimenti troppo importanti per la piccola Casa. Il progetto muore sul nascere; contemporaneamente svanisce anche la collaborazione con la BMW. Tutto questo crea confusione, complicazioni enormi e una fase di stasi che paralizza l’azienda. Per fortuna i clienti riescono a vedere più avanti dei responsabili di allora della Casa e ne è una prova la superba reinterpretazione della Countach a opera di un cliente estroso e ricchissimo, uno dei protagonisti della scena automobilistica della fine degli anni Settanta, Walter Wolf. È infatti lui il primo a capire che la Countach, che è già diventata in tutto il mondo il simbolo della superautomobile sportiva ‘definitiva’, può essere rielaborata, potenziata, soprattutto resa ancora più aggressiva e sfrontata dal punto di vista estetico. Dove Gandini aveva cercato di mantenere una complessiva pulizia di forme e la Casa aveva aggiunto solo il minimo possibile di appendici aerodinamiche e prese d’aria, Wolf esagera, seguendo l’impostazione estetica della Silhouette: monta larghissimi pneumatici Pirelli P7 su speciali cerchi in lega a 5 fori, allarga i passaruota. Con un coup de théâtre sensazionale, si inventa anche l’installazione di un massiccio alettone sul cofano posteriore, un’appendice più scenografica che funzionale, ma che, assieme a schemi cromatici particolarmente aggressivi, proietta la Countach ancora più in alto nel firmamento dell’immaginario collettivo per spettacolarità e aggressione visiva, il top assoluto per gli appassionati di auto sportive.

Ciò non impedisce che arrivino anni duri: l’azienda arriva all’amministrazione controllata. Nel 1978 termina la produzione della Espada, poi finisce la Urraco, infine, nel 1979, anche la Silhouette. Rimane dunque in produzione la sola Countach in versione S, cioè quella inventata da Wolf. Non c’è altro da fare che insistere su questo straordinario modello, che permette alla Casa di sopravvivere nonostante la progressiva contrazione dell’attività, grazie alla consegna, dal 1978 al 1982, di ben 237 unità. Per fare un paragone, erano state prodotte 158 Countach LP 400 ‘normali’ dal 1973 al 1977.
Bertone crede ancora nella Casa bolognese e nel 1980 presenta un interessante studio di automobile completamente scoperta ricavata dalla base della P300: la Athon. Il nome vuol essere un inno al sole, e infatti questa automobile è completamente scoperta e priva di qualsiasi tetto, ma non ha seguito. A causa della disastrosa situazione finanziaria, si erano perse altre importanti occasioni: nel 1978 Frua aveva presentato un’interessante berlina a quattro porte costruita su un telaio di Espada Seconda Serie del 1974, allungato di 178 millimetri per aumentarne l’abitabilità interna. Anche questa Faena, ovviamente, finì per rimanere un esemplare unico, come pure l’interessante proposta di Bertone per realizzare un’Espada a quattro porte mantenendo la stessa linea generale di insieme delle due porte. Si scivola verso il fallimento, poi la liquidazione. Nel 1980, la Lamborghini è ormai data per spacciata.
Fortunatamente, il fascino di queste automobili, di un marchio ormai diventato leggendario e soprattutto la suggestione assolutamente impareggiabile della Countach portano grande interesse attorno all’azienda, che non appena viene posta in liquidazione ha già parecchi pretendenti che la vorrebbero rilevare. Alcune delle proposte che vengono fatte al giudice Mirone rappresentano esclusivamente voli di fantasia, altri puntano solo a rilevare la fabbrica per vendere rapidamente lo stock esistente di ricambi e le poche vetture finite, per poi chiudere definitivamente l’azienda. Ma altri si presentano invece con le carte in regola per salvare questo marchio prestigioso e alla fine il giudice affida l’azienda ai fratelli Jean-Claude e Patrick Mimran, ricchissimi proprietari di un impero dello zucchero in Senegal, appassionati di automobili sportive.
I due fratelli, assistiti dal loro plenipotenziario a sant’Agata, Emil Novaro, iniziano subito l’opera di ricostruzione dell’azienda. La ‘Nuova Automobili Ferruccio Lamborghini SpA’ viene quindi formata nel gennaio del 1981 e da quel momento si ricomincia a lavorare seriamente. Una delle prime scelte, squisitamente tecnica, è l’assunzione dell’ingegner Giulio Alfieri come responsabile tecnico della Casa; già simbolo della Maserati dei tempi d’oro, Alfieri si era più volte scontrato con il nuovo padrone della Casa modenese, Alejandro De Tomaso e fu quindi ben felice di dedicarsi alla ricostruzione della Lamborghini.

Con questo celeberrimo progettista al comando dell’azienda e i fedelissimi della prima ora come Ubaldo Sgarzi sempre all’opera, la Lamborghini si presenta al Salone di Ginevra del marzo 1981 con un nuovo stand che comunica innanzitutto la nuova ragione sociale dell’azienda. Espone inoltre una Miura rielaborata con esiti discutibili da una ditta svizzera, la Countach S con grande alettone posteriore e il primo tentativo di rielaborazione del grosso fuoristrada Cheetah, modificato ampiamente per sfuggire alle minacce legali da parte della FMC e diventato così la LM 001. Ma, segno più tangibile e rassicurante del nuovo corso della Lamborghini, appare anche per la prima volta la Jalpa: un’evoluzione maturata e rifinita della rara Silhouette, con motore portato a 3,5 litri, 255 cavalli e un aggiornamento generale, stilistico ed ergonomico. La Jalpa (P350) è un prodotto non del tutto nuovo, ma ben realizzato e convincente: la rinascita della nuova Lamborghini, oltre che dalla produzione delle Countach, sempre richiesta dagli appassionati, passa anche da questo modello.
L’iniezione di capitali praticata dalla famiglia Mimran permette finalmente di tornare a lavorare in maniera seria sulla Countach, rimasta sostanzialmente invariata dal 1973, a parte gli allargamenti dei parafanghi e delle gomme per la versione S. Alfieri aumenta la cilindrata del classico motore a 12 cilindri portandolo a 4,7 litri, in maniera da fargli erogare 375 cavalli e riguadagnare così quell’eccellenza prestazionale che proprio la gommatura e le appendici aereodinamiche avevano in parte sacrificato. Questa è la Countach 5000, esteticamente però quasi indistinguibile dalla S 4 litri. È un modello fortunato: la Casa di Sant’Agata, non più oppressa dal pesante fardello economico di qualche anno prima, può finalmente produrre tutte le automobili che i suoi clienti richiedono, e così, in soli tre anni, vengono costruite ben 321 Countach 5000.
I fratelli Mimran decidono inoltre di insistere sulla strada, per l’epoca sicuramente innovativa, della grande fuoristrada ad alte prestazioni. Sempre nel 1982 il motore viene razionalmente trasferito davanti all’abitacolo e nasce così il prototipo LMA, sigla che può voler dire, a seconda delle interpretazioni, ‘Lamborghini Motore Anteriore’ o ‘Lamborghini Militare Anteriore’. Comunque sia, questo propulsore è il 12 cilindri bolognese, non più un V8 americano, e questo restituisce al progetto del fuoristrada Lamborghini la sua dignità.
Finalmente, le fortune della Lamborghini sembrano riprendere un trend positivo. Le due automobili correntemente in produzione, cioè la Jalpa e la Countach 5000 S, soddisfano i clienti e se ne vendono sempre di più, in tutto il mondo; di tanto in tanto vengono effettuate piccole modifiche, ma i progetti delle automobili sono giusti e, dal punto di vista commerciale, la situazione migliora sensibilmente. Prosegue, in maniera continua anche se dispendiosa, il lavoro di sviluppo della fuoristrada, che diventa LM 004; ora monta un colossale motore anteriore con cilindrata di 7 litri: la sua velocità massima supera per la prima volta la barriera dei 200 chilometri all’ora. La Pirelli collabora con la Lamborghini nello sviluppo di una nuova gomma ad altissime prestazioni per l’uso su tutti i terreni, sull’asfalto come sulle sabbie dei grandi deserti africani. Diventerà poi la Pirelli Scorpion.
Procede inoltre l’operazione di aggiornamento tecnico profondo delle vetture. Nel 1985, lo stand Lamborghini del Salone di Ginevra presenta la Countach nella sua nuova versione, la Quattrovalvole. Alfieri ha rivisto in maniera profonda tutto il classico motore bolognese, la cui prima edizione risale ormai a quasi 22 anni prima, ampliandone ulteriormente la cilindrata in maniera da aumentarne la potenza; grazie anche all’adozione di testate con quattro valvole per cilindro, il motore, con una capacità di 5167 centimetri cubici, eroga 455 cavalli a 7000 giri, un livello di potenza che pone la nuova Countach molto al di sopra di tutte le sue tradizionali concorrenti. Dopo anni di problemi, evoluzioni, ripensamenti e modifiche, la grossa fuoristrada Lamborghini entra finalmente in produzione: è il 1986. La LM 002 si presenta con un motore V12 che è sostanzialmente quello delle Countach, abbandonata l’idea di montare l’enorme 7 litri del precedente prototipo.

La rinascita della Lamborghini, grazie alla sapiente opera di ricostruzione dei fratelli Mimran e di Emil Novaro, è ormai consolidata. L’annata 1987 si presenta positiva, con vendite di buon livello per la Countach e per la Jalpa, mentre s’iniziano a raccogliere gli ordini per la LM e si continua a lavorare sulla evoluzione della gamma. In quei giorni circolano già i primi prototipi del progetto Tipo 132, destinato a diventare l’erede della Countach. Sempre nel 1987 inizia il lavoro di sviluppo di un’automobile derivata dalla Jalpa ma con tetto in tela e non nel consueto stile Targa: la Jalpa Spyder, anche conosciuta come Speedster. Viene costruito un prototipo, che però non ha seguito per difficoltà tecniche.
Improvvisamente, un fulmine a ciel sereno: il 23 aprile del 1987, l’americana Chrysler, anch’essa giunta pochi anni prima a un passo dalla chiusura e ora tornata in piena forma grazie soprattutto all’energia del manager italo-americano Lee A. Iacocca, acquista la Nuova Automobili Lamborghini SpA. I Mimran escono di scena, fra molte celebrazioni e i ringraziamenti di chi li ricorda per avere salvato la piccola Casa bolognese dalla scomparsa. Gli americani si insediano rapidamente a sant’Agata, e comincia un periodo di intensa attività, stavolta effettuata in stretta collaborazione con una grande industria dell’automobile.
Le premesse sono buone, anche se all’inizio non manca qualche passo falso: il prototipo Portofino, enorme berlina a quattro porte e quattro posti basato su un telaio Jalpa allungato, lascia tutti perplessi e mostra una divaricazione inaccettabile dallo spirito Lamborghini. In realtà si tratta di una linea pensata per un’automobile americana (il prototipo Chrysler Navajo del 1986) cui sono stati frettolosamente appiccicati un motore, uno stemma e un nome italiani. Per fortuna, non avrà seguito, ma purtroppo gli americani non daranno vita né alla interessante ‘piccola Lamborghini’ studiata in quegli anni, dotata di motore V10 e siglata L140, né ad una preziosa illuminazione di Bertone, che con la Genesis, espos


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Località: Ferrara
esposta al Salone di Torino del 1988, realizza un monovolume spaziosissimo e di linea accattivante, dotato del motore V12 della Countach Quattrovalvole da 455 cavalli. È un’auto magnifica e preveggente, visto che il mercato, da lì a poco, inizierà a richiedere monovolumi sempre più lussuosi e veloci: ma la Chrysler non ci vuole credere, e la Genesis rimane solo un magnifico studio.
Ha invece un seguito, seppur abbastanza travagliato, il progetto 132. Per una delle cicliche inversioni di fase che da sempre caratterizzano il mercato delle superautomobili ad altissime prestazioni, la fine degli anni Ottanta vede un rialzo improvviso dell’interesse generale per queste vetture. Scoppia un vero e proprio boom, con prezzi che iniziano a salire non solo per le auto da collezione, ma anche per quelle di normale produzione. La Lamborghini ha da tempo affidato a Marcello Gandini, ancora una volta, il compito di disegnare l’erede della Countach e lo stilista torinese ha realizzato un’altra bella vettura, caratterizzata da un voluto, sapiente squilibrio fra una affilata parte anteriore e una ben più massiccia parte posteriore, a simboleggiare l’enorme potenza racchiusa dietro all’abitacolo, nel vano motore. La 132 è bella, ma i tempi di gestazione, rapidi durante la gestione Mimran, nell’epoca Chrysler si dilatano, a causa delle interferenze di troppi aspiranti stilisti. Quella che avrebbe dovuto essere pronta nel 1988, al massimo nel 1989, approfittando così del rialzo improvviso e generalizzato del mercato, diventa invece oggetto di modifiche continue, la linea viene più volte modificata e l’ingresso in produzione viene rinviato. Non si tratta solo di una banale perdita di tempo, così facendo infatti si sciupa l’opportunità di avere il nuovo prodotto pronto nel momento più favorevole; quando la 132 sarà realizzata l’entusiasmo per le superautomobili si sarà in parte calmato, il mercato sarà più saturo e quindi meno ricettivo.

In attesa dell’arrivo della nuova vettura, la Lamborghini prosegue la produzione della Countach, che viene ancora entusiasticamente richiesta in tutto il mondo. La serie Quattrovalvole termina nel 1988 con un totale di 631 unità prodotte; nel frattempo è stata fatta esperienza con i materiali compositi, e una Countach speciale, denominata Evoluzione, ha mostrato tutte le potenzialità di questo progetto. L’alleggerimento permesso da questi nuovi materiali e il potenziamento del motore effettuato soprattutto mediante l’utilizzo di nuove tecnologie di gestione del motore stesso permettono prestazioni straordinarie. Purtroppo l’Evoluzione non avrà un seguito; per altre ragioni, rimarrà un prototipo anche la Countach speciale ‘asimmetrica’ studiata da Alfieri tra il 1987 e il 1988, come alternativa alla costruzione di un’automobile completamente nuova. Questa vettura è particolarmente interessante per l’accurato studio nella collocazione degli organi meccanici, del serbatoio e di altri componenti della vettura; sui fianchi vengono ricavate prese d’aria per il motore che permettono una migliore efficienza aerodinamica.
La storia della Lamborghini era stata caratterizzata, fino a quel momento, dalla costruzione di straordinarie automobili sportive che non avevano bisogno di attingere all’esperienza, suggestiva ma anche molto costosa, di un Reparto Corse. Fin dall’inizio, Ferruccio aveva messo bene in chiaro che non aveva nessuna intenzione di finanziare queste dispendiose avventure, e così si era sempre fatto.
L’arrivo della Chrysler, e di vari dirigenti ipnotizzati dal fascino delle competizioni automobilistiche, cambia anche questa posizione. Quando, verso la fine del 1987, il team francese di formula 1 Larrousse propone all’ingegner Mauro Forghieri, celeberrimo progettista delle migliori Ferrari negli anni Sessanta e Settanta, di realizzare un nuovo motore, egli si rivolge proprio alla Lamborghini, proponendo di avviare insieme il progetto. Ricevuta l’approvazione della Chrysler, Forghieri progetta il suo propulsore, un V12 di 3,5 litri, la cilindrata massima ammessa dal regolamento. La rapidità del progettista modenese e delle strutture con cui lavora è nota: il nuovo motore, per il quale viene creata una nuova struttura parallela staccata dalla Lamborghini denominata ‘Lamborghini Engineering’, con sede a Modena, è pronto nel giro di pochi mesi. Viene mostrato ufficialmente al pubblico nell’aprile del 1988.
Naturalmente, la notizia desta molta sensazione. L’arrivo di una casa come la Lamborghini, da sempre maestra nel fabbricare motori 12 cilindri di altissima qualità e prestazioni, nel mondo della formula 1, rappresenta una novità importante, che può essere fonte di preoccupazione per i diretti rivali. Inoltre, per la Casa, l’impegno e il rischio sono ancora abbastanza contenuti, dato che tutto si risolve nella fornitura dei motori al team Larrousse, che ovviamente si impegna a pagarli. La stagione 1989 è relativamente deludente, ma la colpa di questi scarsi risultati è da attribuirsi soprattutto alla squadra francese, che non dispone dei finanziamenti e dell’organizzazione necessari per competere al più alto livello. Il motore mostra comunque potenzialità assai elevate, quindi meritevoli di essere sfruttate: persino una squadra blasonata come la Lotus richiede la fornitura dei motori Lamborghini per la stagione successiva.
Anche grazie a questa doppia fornitura di motori a due squadre, i risultati del 1990 sono brillanti. Bernard alla fine del Gran Premio d’Inghilterra conquista un rocambolesco quarto posto e Suzuki arriva sesto; il Gran Premio d’Ungheria dà ancora più ampia soddisfazione ai motori modenesi, che si piazzano in quinta, sesta e settima posizione, rispettivamente con Warwick (Lotus), Bernard (Larrousse) e Donnelly (Lotus); il miglior piazzamento di tutta la stagione viene comunque riportato da Suzuki a casa sua, al Gran Premio del Giappone, dove si classifica terzo e sale quindi sul podio. Questo sarà il migliore piazzamento mai raggiunto da un motore Lamborghini in tutte le stagioni di attività.

Il finale decisamente in crescita della stagione 1990, con ben 14 punti totalizzati dalle squadre con motore Lamborghini, alimenta comprensibili entusiasmi sia a Sant’Agata che a Detroit. Un ricco uomo d’affari messicano decide quindi, proprio sull’onda di questi successi, di commissionare alla Lamborghini non più il solo motore per le gare di Formula 1, ma l’intera automobile. L’occasione è ovviamente troppo bella per lasciarla sfuggire, e, una volta constatata l’ampia disponibilità finanziaria del committente, Forghieri e la sua squadra iniziano a lavorare alacremente all’intero progetto. La monoposto è relativamente convenzionale per l’epoca, ma molto curata nel progetto, e rappresenta il frutto di tutte le esperienze fatte dal progettista modenese nel corso della sua lunga carriera, in particolare dei dati raccolti nei due anni di collaborazione con le squadre dotate di questo motore. La nuova automobile viene iscritta al campionato mondiale del 1991 ma il finanziatore messicano scompare misteriosamente (non se ne sono mai più avute notizie) e nasce un serio problema di finanziamento della squadra. Un industriale italiano si offre di colmare la lacuna per fare correre l’automobile, che può dunque partecipare, come ‘Team Modena’, al campionato mondiale di quell’anno.
Lotus e Larrousse rinunciano, per quella stagione, al motore Lamborghini, richiesti invece dalla Ligier. Ma lo sforzo di seguire un’intera squadra corse e la fornitura dei motori esterni, con finanziamenti decisamente insufficienti allo scopo, provoca l’aggravarsi di problemi già noti e la stagione delle monoposto di Sant’Agata non entusiasma. Se ci fossero stati mezzi finanziari diversi, sarebbe stato probabilmente possibile risolvere in maniera più vantaggiosa i vari problemi manifestatisi nel corso della stagione; ma inspiegabilmente la Chrysler nega qualsiasi supporto a questa attività anche quando diventa evidente che i problemi economici della ‘Engineering’ avrebbero provocato un calo delle prestazioni della vettura F.1 e quindi in un problema di immagine del marchio. Nonostante l’impegno di Forghieri, la scarsa sensibilità della proprietà americana a questo problema porta a un calo progressivo delle prestazioni delle vetture e la stagione 1991 si chiude in maniera negativa, con il ritiro definitivo della F.1 modenese dal campionato mondiale. Ora anche questa bella monoposto può essere ammirata, come grande occasione mancata, all’interno del museo di sant’Agata.
La stagione 1992 vede il ritorno della Lamborghini al ruolo di fornitore del solo motore per le squadre Larrousse e Minardi, quest’ultima reduce da una stagione difficile con motore Ferrari; nel 1993 vengono forniti i V12 modenesi solo alla Larrousse. In ambedue le stagioni appaiono grossi problemi di motore, che riflettono la mancanza di fondi da investire nella ricerca per il suo sviluppo tecnico. Che fosse un motore fondamentalmente molto ben concepito lo dimostra l’interessamento di Ayrton Senna, il quale prova, sulla sua McLaren dell’epoca, un propulsore Lamborghini. L’accordo è ormai cosa fatta quando la Peugeot, desiderosa di ritornare nella massima formula automobilistica con la fornitura di un suo motore a una squadra di primo piano, si intromette e tutto salta, determinando la fine dell’avventura della Lamborghini. Proseguono peraltro, con buoni risultati complessivi, le attività dei motori marini, un campo estraneo alla filosofia originale della Lamborghini automobili ma che ha permesso di riportare significativi risultati in campionati specialistici come quelli della motonautica d’altura.
Nel frattempo, la Lamborghini è comunque riuscita a progredire in maniera sostanziale nel rinnovamento della sua gamma-modello di vetture stradali. Secondo le intenzioni iniziali, l’erede della Countach, cioè la 132, avrebbe dovuto uscire nel 1988 e celebrare così nella maniera migliore i 25 anni di vita della Casa bolognese. I ritardi causati dalle interferenze americane avevano causato un continuo rinvio di questa uscita; per celebrare i venticinque anni si realizza quindi un’edizione commemorativa della Countach. Viene quindi realizzata un’ampia modifica, soprattutto estetica, della già nota Quattrovalvole, nella quale vengono incorporati tutti i benefici derivanti dagli ultimi studi sui materiali compositi e sui sistemi di gestione motore; la Anniversary è la degna edizione finale di questa gloriosa vettura e non a caso viene accolta con grande entusiasmo dei clienti, che ne acquistano ben 657 unità. Non sono pochi, a questo punto, a domandarsi se la nuova vettura saprà sostituire degnamente il grande classico da cui è nata.

La presentazione dell’erede della Countach avviene nel 1990. La 132 viene denominata Diablo, il nome di un toro da combattimento particolarmente feroce del XIX secolo, e si dimostra all’altezza delle aspettative. L’erede della Countach non poteva essere un’automobile normale, doveva essere eccessiva, spettacolare, violenta e inconsueta: la Diablo, con i 492 cavalli erogati dal suo V12 di 5,7 litri, è tutto questo e molto di più. Dal punto di vista tecnico essa rappresenta uno sviluppo sostanziale della Countach; il suo progettista, Luigi Marmiroli, ha cercato di superare gli aspetti meno positivi del progetto precedente e di preparare un’automobile veramente moderna e attuale. La sua linea, nonostante i molti interventi stilistici in terra americana, ha comunque conservato un apprezzabile stile complessivo. Ma la Diablo non è solo bella, è anche potentissima ed ha solide basi tecniche: il motore a 12 cilindri permette di arrivare a una velocità di oltre 327 chilometri all’ora. Nel 1990, la Diablo viene presentata nella versione a due ruote motrici, ma è già pronta a quella a trazione integrale, che da quel momento diventerà una caratteristica delle Lamborghini di pregio.
Questa versione, denominata Diablo VT, per ‘Viscous Traction’, denominazione legata alla presenza di un giunto viscoso fra l’assale anteriore e quello posteriore, viene presentata al Salone di Ginevra del marzo 1993. È un momento importante e delicato, visto che il mercato globale delle superautomobili si è nuovamente ristretto e ci sono segni di una imminente nuova crisi per tutto il settore. La Diablo, però, convince, e la sua produzione continua con buoni risultati commerciali. È nel frattempo terminata invece la produzione della fuoristrada LM 002; ne sono state costruite in tutto 301 unità.
La decisione dei fratelli Mimran di vendere la Lamborghini alla Chrysler fu inattesa, ma poteva essere comprensibile, essendo naturale che una grande azienda di larga produzione si interessasse ad acquisire per la sua gamma di prodotto un gioiello come la Lamborghini; inspiegabile appare la successiva, improvvisa cessione della Casa bolognese da parte della Chrysler stessa a un gruppo di sconosciuti investitori indonesiani. Tale passaggio di mano viene ufficializzato il 21 gennaio del 1994, con una grave destabilizzazione della direzione della Casa. I nuovi proprietari assumono una serie di dirigenti inglesi e americani che si rivelano progressivamente sempre meno adatti alla loro posizione. Le idee più strane si accavallano nel corso dei mesi seguenti, riportando alla mente, a chi aveva già vissuto la storia della Lamborghini, gli anni di grande confusione tra il 1974 e il 1980. Una delle prime decisioni del nuovo presidente è quella di ripristinare la produzione della LM, nonostante fosse già stato dimostrato che la Lamborghini non poteva permettersi gli altissimi costi di sviluppo necessari per rendere appetibile questa vettura; contemporaneamente, viene congelata e rimandata più volte la produzione della ‘piccola Lamborghini’, conosciuta come L140, che avrebbe pur potuto collocare un prodotto della prestigiosa azienda bolognese in un settore più invitante per la clientela. Per fortuna, il progetto LM non venne realmente mai riavviato.
Nonostante tutti questi problemi e un progressivo deterioramento dei rapporti umani all’interno dell’azienda, la Diablo viene sviluppata e se ne ricavano molti modelli collaterali, alcuni dei quali piaceranno molto a particolari fasce di clienti. Fra questi, particolarmente interessanti sono la SV del 1995, un modello alleggerito e potenziato che privilegia il piacere di guida rispetto alle comodità; la VT Roadster, con tetto asportabile in stile Targa, che diventa subito un ottimo successo, in particolare negli Stati Uniti; da questi modelli vengono derivate altre edizioni speciali, SE, Jota, Monterey, Alpine e molte altre ancora. Sempre nel 1995, Giorgetto Giugiaro mostra alla stampa specializzata la Calà, un’altra vettura con motore V10 pensata per sostituire la Jalpa. Per quanto interessante, non esce dallo stadio di prototipo.

Durante il 1996 viene anche inaugurato un campionato monomarca, pensato in quel momento di crisi soprattutto per vendere alcune Diablo in più, grazie all’organizzazione di una serie di gare da svolgersi in Europa, con regolamento simile a quello di già affermati campionati internazionali quali, ad esempio, la Porsche Carrera ‘Cup’. Per tale campionato viene realizzata una versione da circuito della Diablo, la SVR; nel 1999 viene annunciata la sua evoluzione stradale (GT, serie limitata in 83 unità, ultrasportiva ’stradale’) e da circuito per il nuovo ciclo di gare di questo trofeo (GTR, con motore 6 litri da 590 cavalli, da prodursi in una serie limitata di 32 unità).
Alla fine del 1996 arriva Vittorio Di Capua alla guida dell’azienda. Nel frattempo, Luigi Marmiroli lascia la Lamborghini per ragioni personali e il suo posto viene preso da Massimo Ceccarani.
La necessità di sviluppare nuovi modelli, e quindi di effettuare importanti investimenti in questa direzione, è evidente; la Diablo ha già più di sette anni, che in questo difficile mercato rappresentano un periodo lunghissimo. La prima idea è quella di cercare di effettuare una specie di profondo restyling, cioè di cambiare l’intera carrozzeria della Diablo mantenendone però invariata l’eccellente base meccanica. Per fare questo viene contattato uno studio italiano che aveva precedentemente realizzato un interessante prototipo sulla stessa base meccanica, denominato Raptor ma la versione proposta per la produzione, modificata secondo le esigenze legislative internazionali, non convince. Anche questo si rivela un vicolo cieco.
Contemporaneamente, la Lamborghini chiede collaborazione tecnica ad alcuni fabbricanti automobilistici di altissimo livello, fra i quali l’Audi. L’idea iniziale è quella di chiedere il motore 8 cilindri dell’ammiraglia A8 per motorizzare la futura ‘piccola Lamborghini’, ma i tecnici dell’Audi riportano alla sede centrale, in Germania, rapporti molto positivi sullo stato dell’azienda, sulla ritrovata buona gestione e sulla serietà dei lavori di sviluppo delle vetture.
Ferdinand Piëch, nipote del mitico professor Ferdinand Porsche, l’inventore del famoso Maggiolino, ma anche nipote del fondatore della Casa automobilistica Porsche, Ferry, e soprattutto in quel momento presidente del gruppo Volkswagen, della cui rinascita egli era stato il principale artefice, si mostra subito interessato. La Lamborghini lo aveva già affascinato molti anni prima, nel corso delle sue prime visite in Italia come giovane ingegnere nel mondo dell’automobile, ora, dopo avere esaminato attentamente la situazione della Casa bolognese, decide di procedere il più rapidamente possibile. La prima lettera d’intenti fra Audi e Lamborghini viene firmata il 12 giugno 1998, il contratto per la cessione completa e definitiva di tutte le azioni dall’ultimo azionista indonesiano alla Casa tedesca viene portato a termine il 27 luglio dello stesso anno, cioè meno di 50 giorni dopo. Nel giro di pochi mesi viene rinnovato completamente il Consiglio d’Amministrazione: nelle varie posizioni si avvicendano manager scelti con cura dal Gruppo Audi, da Giuseppe Greco a Werner Mischke, da Rodolfo Rocchio ad Hans-Peter Rottländer, al designer Luc Donckerwolke e ad altri ancora.
Quello che è più importante è che da quel momento incomincia, a tutti gli effetti, una nuova vita della Lamborghini. Per troppi anni c’erano state incertezze, ristrettezze, problemi economici e di assetto societario; per troppo tempo si era dovuto ricorrere ad ammodernamenti continui di prodotti classici senza poter fare dei veri, grandi passi avanti. Una situazione che la Lamborghini aveva già vissuto e che aveva saputo superare brillantemente; anche stavolta le tempeste della seconda metà degli anni Novanta diventano rapidamente solo un lontano ricordo. La Casa di Sant’Agata Bolognese si avvia verso il nuovo millennio e vi entra con la sicurezza di essere finalmente approdata in ottime mani. Quella dell’Audi non è infatti solo una proprietà ricca e famosa; il fatto di essere sotto un simile ombrello vuol dire che si può contare sull’assistenza che una grande casa automobilistica, fra l’altro nota per il suo altissimo profilo tecnologico, può fornire alla Lamborghini con tutti i vantaggi dei grandi numeri di produzione e della tecnologia sviluppata per questi, senza però voler togliere neppure una briciola della sua leggendaria personalità.

La prima grande novità arriva nel 2001, ed è l’erede della Diablo: la Murciélago. Non c’è quasi bisogno di dire che anche questo nuovo modello prende il suo nome da un famoso, feroce toro da combattimento; il fatto che questa parola, in spagnolo, significhi ‘pipistrello’ accresce il fascino un po’ oscuro, quasi notturno di questa nuova magnifica automobile. Aumenta ancora la potenza, che ora arriva a 580 cavalli; con questi crescono ovviamente anche velocità, muscoli, accelerazione. Soprattutto aumenta la sensazione di qualità complessiva dell’intera automobile, il cui livello di rifinitura migliora ulteriormente rispetto ai già ottimi risultati delle ultime Diablo. Il mercato reagisce bene e la Lamborghini può contare sulla vendita di ogni esemplare che riesce a produrre, prenotato dai clienti con largo anticipo.
La Murciélago non è destinata a rimanere sola: ma, in attesa che arrivi la sua compagna nella gamma modello di sant’Agata, se ne studia qualche variante. La prima, senza dubbio la più spettacolare, è una Concept car di una versione ‘Barchetta’ che viene presentata al Salone di Detroit del 2003. Non è solo una Murciélago a cui è stato tolto il tetto, ma un’automobile in gran parte nuova, con un trattamento del cofano posteriore e dei montanti laterali davvero molto interessante. Si tratta per ora di un modello di stile, ma una versione modificata entrerà in produzione. Sempre nel 2003, in questo caso però al Salone dell’automobile di Ginevra, arriva l’altra grande novità: si chiama Gallardo ed è la nuova ‘piccola Lamborghini’.
Dire che la Gallardo è ‘piccola’ fa un po’ sorridere. Lo è, naturalmente, se la si confronta con la grande Murciélago: ma, in assoluto, questo aggettivo mal si addice a un’automobile che ha un motore 10 cilindri a V da cinquecento cavalli, con cinquanta valvole, trazione integrale permanente e una velocità massima che supera ampiamente i 300 km/h. Certo, anche il concetto di ‘piccolo’ è relativo, e a Sant’Agata forse si ritiene che siano tali tutte le automobili che hanno meno di 12 cilindri. In ogni caso, è chiaro che la Gallardo si propone come una splendida seconda Lamborghini, la sorellina ideale della potentissima Murciélago. Le due, fianco a fianco, costituiscono l’ossatura ideale per una piccola Casa ritornata al calore d’un tempo, che ora guarda avanti con la fiducia di sapere che potrà fare ancora di meglio nel prossimo futuro.

Non è sempre facile determinare l’esatto numero di vetture che un piccolo fabbricante di automobili sportive esclusive come Lamborghini ha costruito nel corso della sua storia. Durante i vari cambi di proprietà si possono essere persi dei documenti commerciali, alcune automobili sono state ricostruite, modificate o aggiornate, i prototipi possono essere inclusi in una lista ed esclusi in un’altra e così via.
Automobili Lamborghini ha deciso di tributare un ulteriore omaggio ai suoi affezionati clienti e appassionati in occasione delle celebrazioni per il suo quarantesimo anniversario e di eliminare qualsiasi incertezza in merito. È stato infatti creato un vero e proprio Archivio Storico - che si aggiunge al Registro Lamborghini - che raccoglie le schede di produzione di tutte le Lamborghini di serie prodotte dal 1963 (escludendo, per ragioni ovvie, i prototipi e gli esemplari unici), ricostruendo così, non senza difficoltà, la completa storia della produzione.
La tabella pubblicata a seguire è da considerarsi dunque la lista definitiva delle vetture prodotte a Sant’Agata dal 1963, ufficialmente approvata e verificata da Automobili Lamborghini.

Modello: unità prodotte

350 GTV: 1
350 GT: 135
3500 GTZ: 2
350 GTS: 2
400 GT 2+2: 250
400 GT 2p.: 23
Miura P400: 275
Miura P400S: 338
Miura SV: 150
Jslero: 155
Jslero S: 70
Espada 400 GT Serie I: 176
Espada 400 GTE Serie II: 578
Espada 400 GTS Serie III: 472
Jarama 400 GT: 177
Jarama 400 GTS: 150
Silhouette: 54
Urraco P300: 203
Urraco P200: 71
Urraco P250: 275
Urraco P250S: 246
Jalpa 350: 420
Countach LP 400: 152
Countach LP 400S: 235
Countach 25: 658
Countach 4V: 631
Countach LP 5000S: 323
LM 002: 301
Diablo: 873
Diablo VT: 529
Diablo SE: 157
Diablo VT Roadster: 468
Diablo SV: 346
Diablo SVR: 34
Diablo GT: 83
Diablo GTR: 32
Diablo 6.0: 337
Diablo 6.0 SE: 44

- Lamborghini, Storia della Automobili Lamborghini, estratto dal libro “the Collection” di Stefano Pasini


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MessaggioInviato: mar nov 28, 2006 5:28 pm 
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Iscritto il: mar giu 06, 2006 4:00 pm
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Località: Bologna
...oè, Grazie!!!...non mi ero accorto del...Taglio!!! :D

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Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent'anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos' hanno prodotto? Gli orologi a cucù.( O.Welles)


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MessaggioInviato: mar nov 28, 2006 8:22 pm 
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Iscritto il: mar lug 17, 2007 12:01 am
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non ce una sintesi??? :allegria


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MessaggioInviato: ven gen 19, 2007 11:52 am 
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Iscritto il: lun mar 13, 2006 11:56 pm
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Cita:
un motore 10 cilindri a V da cinquecento cavalli, con cinquanta valvole

Le valvole sono 40, ovvero 4 per cilindro.
http://www.lamborghini.com/2006/lamboSi ... p?lang=ita


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